L’occupazione delle truppe giacobine nel 1797 a Rimini

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La sollevazione di Rimini
L’occupazione delle truppe giacobine nel 1797 aveva portato alla miseria i Riminesi per le requisizioni, le tasse e le gabelle che gli occupanti francesi avevano imposto per coprire le spese della Campagna d’Italia.

Inoltre le restrizioni religiose avevano fatto crescere il malcontento nella popolazione: la soppressione dei monasteri, il divieto alle pubbliche processioni, la trasformazione di edifici sacri a caserme, la razzia di oggetti sacri e non depredati dalle chiese. Non erano rari gli scontri e la sopportazione dei cittadini era al limite; il 30 Maggio scoppiò la rivolta.

La prima ribellione avvenne il 7 Aprile: in quel giorno i cittadini a grande richiesta, malgrado il divieto, reclamarono la processione della Madonna dell’Acqua per chiedere la cessazione delle piogge che mettevano in pericolo i raccolti.

I cittadini si erano radunati, secondo i cronisti dell’epoca in numero di 8mila; i francesi vista l’ostinazione e la rabbia dei convenuti autorizzarono la processione per un breve tragitto, dalla chiesa ai chiostri.

Molti preti si rifiutarono ma malgrado ciò la processione uscì; il corteo sospinto dalla volontà di tanti popolani forzò il blocco che le guardie avevano predisposto rispondendo alle armi dei soldati con roncole, bastoni, mannaie mettendo in fuga i francesi. Quella travagliata processione fu il prologo di quello che avvenne il 30 Maggio.

Il 30 Maggio giungeva in città la notizia che gli Austro-Russi stavano sconfiggendo le truppe giacobine in molte città della Romagna e sull’Adriatico, al largo di Rimini, navigava un vascello austriaco.

I pescatori, alla vista del battello pensarono fosse giunta l’occasione buona per liberarsi dell’odiato occupante che nel frattempo aveva predisposto, a difesa, sulla linea di costa una batteria di cannoni.

Ma i pescatori capeggiati dal borghigiano Giuseppe Federici soprannominato “il glorioso” con sassi, remi e bastoni misero in fuga i francesi che non fecero in tempo a sparare un solo colpo.

Da una cronaca dell’epoca tratta dal “Giornale di Rimini” un articolo di Michelangelo Zanotti, notaio e cronista delle vicende della città nel periodo tra ‘700 e ’800 dichiarò il 30 maggio 1797 “giorno di dolore e di allegrezza insieme”.

<< Il mattino seguente giunse in città, ansiosa di partecipare alla festa comune, una gran massa di contadini armati di falci, zappe, mannaie, spade rugginose e qualche archibugio>> che si organizzarono con i pescatori e le armate austro-russe e con aspri combattimenti costrinsero i francesi a ripiegare dal Borgo San Giuliano e a respingerli per diversi chilometri fino a Santa Giustina.

Nella notte i francesi vennero definitivamente cacciati dal territorio riminese; il comandante Fabert si rifugiò a San Leo dove sarà catturato all’atto della resa della fortezza.

Passato questo periodo la vita riminese riprese normalmente: i pescatori tornarono in mare, i contadini alle loro terre, i sacerdoti alle sacre funzioni e le processioni ripresero con la devozione del popolo.

L’occupante cambiò casacca, ma si comportò sempre da occupante tenendo sotto il suo giogo il popolo: la libertà era ancora molto lontana. Questa è una pagina di storia che non si legge sui libri di storia.

Guido Pasini

Mi piace fare una mia osservazione. I Riminesi, così come i Romagnoli, sono stati e lo sono tutt’ora gente di sinistra – almeno nella maggioranza (dati elettorali lo confermano) -, ma guai a toccare loro la chiesa e la religione, il patrono e i riti collegati; grandi bestemmiatori, ma a modo loro ferventi credenti.

E’ una considerazione che mi ha sempre fatto riflettere: comunista (parlo del vecchio PC) ma assiduo alle Messe domenicali e spesso anche ai Sacramenti, una doppia facciata completamente opposta: forse è o era opportunismo?

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