Nonno Sante

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La saggezza del nonno è tutta in questa frase: Pora burdela, l’an po’ gnenca scurzé.
Sante era più precisamente lo zio del babbo, quindi per noi figli era il prozio o zio in seconda battuta. Allora perché noi fratelli lo chiamavamo nonno?
La storia parte, come tutte le storie, da c’era una volta… Il babbo Pietro (Pierino) era uno dei 9 figli di nonno Luigi (Bigin) e di nonna Rosa. Il fratello di Bigin, Sante, sposato con Maria non aveva figli. Bigin era contadino e viveva in campagna, Sante era un ferroviere (operaio calderaio) e viveva a Rimini.

Era frequente, in quegli anni, che fra parenti si concedesse un figlio in affido, a volte anche solo sulla parola senza alcuna forma legale, o per alleggerire il peso sulla famiglia, o per dare al piccolo un miglior tenore di vita, o solamente per dare agli sfortunati genitori un bambino da far crescere e compensare la mancanza di maternità.

Pierino venne adottato dallo zio Sante ed ebbe una vita più agiata rispetto ai fratelli, visse in città e fu l’unico in grado di studiare fino alle scuole superiori e diplomarsi maestro. Ma non tutto era così bello e filava liscio, infatti la mamma adottiva Maria era estremamente gelosa e quando veniva a sapere, tramite le solite voci di comari, che il babbo era andato a trovare la sua mamma naturale, per lui erano dolori; inoltre Maria era particolarmente avara e costringeva il giovane Pierino a studiare a lume di candela, perché ad una certa ora, per risparmiare, si dovevano spegnere tutte le luci.

Maria morì poco dopo la fine della guerra, lasciando Sante, appena cinquantenne, vedovo.
Non ho ricordi di Maria, tranne queste poche note che ho detto e qualche ingiallita fotografia.

Sante, al contrario di sua moglie era un tipo brillante, ed esageratamente generoso – si rivelò tale dopo la morte della moglie. Mamma mi raccontava che quando Sante prendeva la paga o più avanti la pensione, davanti al portone di casa metteva una damigiana di vino – prodotto in proprio dal podere di famiglia in quel di Monte Tauro – e a chiunque passasse offriva un bicchiere di vino fino ad esaurimento.

Ricordo che Sante diceva: sale e vino non si possono negare a nessuno: il sale perché durante la guerra non si trovava – per rimediarne una piccola parte si faceva bollire l’acqua del mare fino a completo consumo e raccogliere il residuo salino – e il vino che è insito nell’animo del romagnolo quale simbolo di accoglienza.
A Sante piaceva bere, ma noi nipoti non l’abbiamo mai visto sbronzo; a volte era solo un po’ più euforico del solito.

Non ho ricordi del nonno arrabbiato, oggi diremmo con una parola molto più chiarificatrice, incazzato. Il nonno parlava in dialetto col babbo, con noi nipoti sempre in italiano.

Ho parlato della generosità di nonno Sante: tutte le volte che prendeva la pensione dava a noi tre nipoti 100 lire a testa – la paghetta mensile; su una pensione di ex ferroviere, non certamente d’oro, un esborso di 300 lire non era poca cosa, considerando che si parla degli anni ’50.

Nonno Sante era particolarmente attaccato ai nipoti – noi tre fratelli maschi – e quando, diventati più grandicelli, venivamo sgridati e redarguiti per qualche malefatta, per non vederci puniti, usciva di casa e andava nell’osteria dove passava le serate giocando a carte. La posta del gioco non era alta, lo scopo era quello di fare l’ora di andare a letto e di passare il tempo fra tressette, scopa o altro gioco.

Ha sempre detto che giocava il bicchierotto di vino; in inverno partecipava ai tornei organizzati dall’oste e non era infrequente vederlo tornare con un salame, un bottiglione di olio, un cappone, una damigianina di vino… nel gioco a carte era un vincente.

Mi capitava spesso di essere punito per il mio scarso profitto scolastico o per qualche marachella. In quel tempo i genitori non lesinavano le punizioni anche con ceffoni, e mamma molto spesso mi prendeva di mira. Ricordo i giri attorno alla tavola inseguito da mamma con la scopa o il battipanni e quando non riusciva a raggiungermi mi lanciava le ciabatte.

Essere sgridati dal babbo era meno frequente, ma quando capitava erano veri guai. Dal servizio militare babbo aveva portato a casa il nerbo che utilizzava per i muli, e con quello erano dolori, le frustate sulle gambe erano immancabili. Con mio fratello Pier Giorgio decidemmo che quello strumento doveva scomparire e un bel giorno riuscimmo a spezzarlo fino a renderlo inutilizzabile.

La punizione più frequente era: “vai a letto senza cena”. E io ci andai varie volte…
Riflettendo oggi su quegli episodi ritengo fossero giusti e penso che mi abbiano aiutato a diventare “grande”.
Nonno Sante ha sempre parteggiato per noi nipoti anche se non in diretto contradditorio col babbo.

A Sante piacevano gli animali. A casa nostra si sono succeduti tanti cani – tutti di nome Bobi – gatti, che mi sembra ricordare non avessero un nome; solo negli anni ’50 un gatto soriano fu chiamato Maolino e una gatta siamese, Sirikit – in onore della bella regina Sirikit di Thailandia.

Un giorno, circa nell’anno 1964 passeggiando sul lungomare, scorsi Sante seduto su una panchina abbracciato ad una donna che mi parve avere più o meno la stessa età – quindi per me era una donna già vecchia – Sì, in quel tempo le persone che oggi considero anziane per me erano vecchie. Allungai il passo cercando di passare inosservato ma il nonno si accorse della mia presenza e da quel momento divenni il suo complice: era una vedova la cui famiglia gestiva una trattoria in centro città – nessun impedimento fra di loro, erano entrambi vedovi.

Quando Angela, così si chiamava la passione del nonno, andò in vacanza nell’Appennino Bolognese e precisamente a Suviana, nonno le inviò una cartolina di saluti e mi incaricò di scriverla, perché, disse, la mia calligrafia era più leggibile della sua e voleva fare una bella impressione.

Al mattino, in cucina, mentre la mamma preparava il pranzo, leggeva ad alta voce le notizie dal giornale quotidiano soprattutto relative a cronaca nera; ricordo la sua passione per il caso Montesi o Fenaroli-Ghiani. Nelle fredde giornate invernali il nonno passava la mattina nel pian terreno e più esattamente nella stanza dove si trovava la caldaia che riscaldava l’intera casa e dove venivano stese le lenzuola ad asciugare, in compagnia dell’amico Tor ad Babein, vicino di casa.

Non ho mai saputo il nome esatto dell’amico, presumo Tor per Salvatore ma ad Babein? Anche il Bobi di turno era con loro, stavano al caldo, parlavano e giocavano a carte. Mamma a metà mattina portava loro il caffè che correggevano con un goccio di mistrà. Il mistrà veniva acquistato da un omino che scendeva dal territorio sammarinese con due borse piene di bottiglioni appese al manubrio di una bicicletta; era un prodotto artigianale e chiaramente illegale, ma era mille volte più buono e più a buon mercato di quello commerciale.

Il bottiglione di mistrà era conservato in quella stanza e in quella stanza, la più calda della casa, andavano spesso a giocare le due sorelline Maria Rosa e Donatella, minori di me di 11 e 12 anni. Avevano alcuni secchielli di sabbia che impastavano con acqua, come si fa al mare sul bagnasciuga. Non si sa come, ma anziché mescolare la sabbia con l’acqua, quella volta lo fecero con il mistrà del nonno.

Quando il nonno se ne accorse, dal profumo della sabbia che le sorelle stavano impastando, d’impeto prese la sabbia e, aperto il portellone della caldaia, la buttò dentro. Io ero presente e non feci in tempo a fermare il nonno. Una fiammata improvvisa e un boato si sprigionò da quella sabbia; fortunatamente nessuno era lì vicino e nessuno riportò conseguenze ma lo spavento fu tanto.

Il tempo per il nonno non passava mai; tutti gli anni compiva 60 anni. Il suo calendario si era fermato ai 60 anni.
Quando fui mandato a fare il servizio militare nel sud – a Barletta e a Trani – mi venne a trovare più volte e tutte le volte, oltre che essere portatore di buone cose preparate dalla mamma, mi allungava, per quel che poteva, anche qualche soldino.

Al termine del servizio militare, fui assunto come impiegato dal mulino -pastificio Angelo Ghigi, dove conobbi Bruna. Bruna era una esile ragazza a conferma del suo nome, bruna con due bellissimi occhi che mi rapirono immediatamente. Quando ci fidanzammo, il nonno mostrava i primi sintomi della malattia che lo porterà alla morte nel 1968.

Ricordo la pena che ci faceva quando a tavola, bagnava il pane nell’acqua, poiché il vino gli era stato proibito dal medico.

Come ho detto, Bruna ed io lavoravamo insieme, nello stesso ambiente, in qualità di impiegati. Alla sera, tutte le sere, dopo cena, andavo a casa di Bruna per la veglia. Quindi eravamo praticamente sempre insieme. Quando Bruna cominciò a frequentare la nostra casa, Sante era allettato e dal letto pronunciò: “Pora burdela, l’an po’ gnenca scurzè”.

Guido Pasini

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