ECLISSI

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“ …lasciando la luce adorata del sole, nulla vedrò, più nulla…”
Teognide di Mègara

La campagna, era arsa da un sole maligno, che col suo sudore
avvolgeva ogni cosa – dietro alla “biforca”, sul casale che pareva un
nido di taccole, tirato su alla rinfusa, con quei sassi del Marecchia e
quelle tavelle d’argilla, mescolati alla “magra” calce che dava l’impressione
di cadere da un momento, sbattuta dal vento africano, che
tutto il giorno gli aveva buttato addosso quelle sue fiamme, quasi
volesse incendiarlo, vi era ancora un sottile tappeto d’ombra, un tappeto
grigiastro con venature sabbiose, come le pietre d’arenaria, che
erano l’ossatura robusta dell’antico monastero “francescano” di S.
Igne, addormentato in una piccola radura, sopra alla casa, incastrato
dentro al bosco di rovelle, faggi, maggiociondoli e fasci di ginestre,
come un enorme animale selvatico, spossato dalla lunga nottata di
caccia.
I due denti aguzzi del monte, che stavano di guardia alla boscaglia
silenziosa e viva, si piantavano nel cielo di verbena, mentre l’aurora
schizzava col suo ampio pennello spruzzi dorati di miele d’acacia.
Dietro alla piccionaia piantata nell’aia; la rupe scagliosa e buia del
Conte di Cagliostro, pareva riposarsi all’umida frescura petrosa, che
la notte di San Lorenzo gli aveva regalato, tracciando sulle rugginose
inferriate del forte, vaghe scintille morenti che mondi remoti avevano
seminato nei cupi cieli siderali.
Lino, s’alzò dal suo letto ancora sconvolto da un brutto sogno, che
l’aveva rincorso tra i muri di quella sua antica casa; quella casa troppo
grande per un uomo solo, grande e vuota come la sua anima sen-
sibile di poeta contadino, ora che aveva perduto per sempre la sua
compagna. Quella donna matura, dalla carnagione bruna, con lo
sguardo di chi vede oltre alle cose, incontrata per caso, e per caso
rimasta con lui a dipingere le nostalgie del suo essere sofferto e sofferente,
fatte di case dal candore infinito, stagliate sul blu marino e
fiori, tanti fiori dai colori profumati… nature morte vive di vita, quella
vita che in lei andava perdendosi lentamente, come si perdeva il
sentiero di polvere che ora Lino stava seguendo… una stradicciola
strozzata dai pruni zeppi di frutti asprigni, lo stesso sentiero che il
contadino faceva, tutti i santi giorni, a testa bassa, accompagnato dal
suo cagnone bianco e nero con gli occhi celesti.
L’uomo scendeva lentamente, immerso nei suoi pensieri, che poi
diventavano poesia, quella poesia povera, che è dentro alle piccole
cose, e che dalle piccole cose prendeva vita come un bimbo dal latte
materno.
Il canto di quella natura brillava negli occhi grigi del robusto
uomo, accompagnandone il cammino; ogni tanto le orecchie pelose
di Nilo, si torcevano come paglia sul fuoco, cercando di catturare lo
scalpitio di qualche piccola lepre, che ruzzolava come una trottola nel
sottobosco profumato.
In fondo al sentiero, si apriva un campo cespuglioso, con al centro
una pietra sottile conficcata per terra: Lino si avvicinò ad essa,
lasciando cadere tra l’erba rinsecchita una sacca di tela, che teneva a
tracolla, poi con un ampio gesto della mano ruvida e pelosa, accarezzò
teneramente la stele appena rischiarata da un incerto bagliore,
rimase per un attimo immobile con lo sguardo vuoto, sussurrando
monotonamente un nome: il nome di lei, lei che ora non c’era più, ma
che lui ne sentiva addosso la presenza, e gli pareva d’avere una seconda
pelle che lo ricopriva, stringendolo continuamente in un abbraccio
morbido e caldo.
Lavorò tutta la mattina, scavando la pietra con il suo scalpello;
colpo su colpo, poi stanco, si distese sulle stoppie, vicino al suo cane
accovacciato, che nel sonno bizzarro inseguiva chissà quale preda,
emettendo guaiti di cucciolo.
Il ricordo di lei s’accaniva nella sua mente, rubandogli ogni altro
pensiero, allora un brivido sottile s’impadronì del suo corpo sfinito,
quando tutt’intorno a lui s’accese una strana luce, che andava tingendo
i bassi cespugli spinosi, fino al bosco dei castagni, punteggiati
di ricci verdastri. Lino non fece caso a quel velario turchino, che si
svolgeva sulla terra, ad occhi socchiusi seguiva la pietra, che ora s’era
fatta scura, come un’ombra serale, sulla sua rozza superficie, sfrangiati
spicchi dorati, s’agitavano tremanti come sospinti da un improvviso
sbuffo di vento, che raggelava ogni forma di vita.
Gli uccelli del bosco, uno ad uno, spensero il loro canti melodiosi,
ed un brivido s’impadronì del triste poeta, quando s’accorse che il
sole era un enorme buco nero, nero e profondo come il pozzo del
convento.
Il fosco disco solare, inchiodato in mezzo al cielo, come una tetra
pupilla svuotata, emanava il suo malefico fluido, sul giorno confuso
da una notte prematura.
In quel livido trapasso, la piatta lastra oscurata dall’eclissi lunare ad
un tratto avvampò, ed in quel barlume Lino rivide la sua infelice compagna…
Quando gli astri del cielo, si disgiunsero dal loro oscuro
amplesso e la luce riprese a cantare tra le ali degli uccelli storditi, accecato
da quella visione, rivolse gli occhi umidi di pianto al sole, che
ormai s’era liberato del suo bavaglio lunare, e rimase a fissare quel
caldo globo cangiante, che gli aveva regalato quella dolce visione.

Racconto e fotografia di Luciano Monti

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