La PIE’, la PIDA, la PIEDA, chiamata così seconda dell’inflessione dialettale delle vare località di Romagna; variando i dialetti varia anche la sua preparazione.
Considerata in passato il pane dei poveri, ha ammaliato i palati di mezzo mondo e Giovanni Pascoli così la canta:
ed ecco liscia come un foglio, e grande come la luna; / e sulle aperte mani tu me l’arrechi,
e me l’adagi molle sul testo caldo. / Io, la giro, e le attizzo con le molle il fuoco sotto,
fin che stride invasa dal calor mite, e si rigonfia in bolle / e l’odore del pane empie la casa
ed ancora Aldo Spallicci, fondatore nel 1920 di una rivista di interesse romagnolo (La Piè) ancora oggi pubblicata con periodicità bimestrale:
oh, la piadina!
Odore della casa che arriva quassù, / e chi la mangia sente aria di Romagna.
Dal vocabolario Romagnolo- Italiano di Adelmo Masotti, edizione Zanichelli (1996):
L’alimento più caratteristico della cucina romagnola deve il suo successo principalmente alla semplicità della sua esecuzione ed alla adattabilità nel suo utilizzo. Un cibo idoneo a tutte le occasioni, come spuntino, come gustoso antipasto, come sostituto del pane specialmente con i salumi e le erbe del territorio.
La ricetta base è costituita da quattro ingredienti: farina, strutto, sale e acqua tiepida; ogni zona poi ha le sue varianti: sottile o spessa, con aggiunta di bicarbonato nell’impasto o di un pizzico di dose lievitante, con l’aggiunta di un goccio di latte, o con sostituzione dello strutto con olio d’oliva ed altre aberrazioni che deviano dalla ricetta base e ne variano notevolmente il gusto. E’ soprattutto l’abile lavorazione sul tagliere (tulìr) della massaia (l’arzdòra) e la cottura sulla teglia (la teggìa) che dovrebbe essere di terra, ma che spesso è di ferro che le donano quel sapore inconfondibile.
Altre varianti: la piada ancora cruda viene imbottita con erbe, formaggio, salsiccia, ecc… – i cassoni (Cassun) poi cotta come sopra.
La PIADINA ROMAGNOLA, secondo alcuni studiosi, ha origini preromane, come si deduce dall’Eneide di Virgilio.
Enea fugge da Troia in fiamme, conquistata dopo un assedio lungo dieci anni, con il padre Anchise e il figlioletto Ascanio, ed altri compagni, senza poter prendere nulla ad eccezione di pochi viveri e i simboli sacri della dinastia – la religione e la continuazione della casata -. Non hanno piatti su cui posare il cibo perciò si ingegnano e impastando farina ed acqua formano dei dischi che cuociono su piastre roventi utilizzandoli come piatti (le mense)
Nel suo errare nel Mediterraneo, ostacolato dagli dei dell’Olimpo, Enea attracca sulle coste delle isole Strofadi, sede delle Arpie che gli predicono:
voi tendete all’Italia, ed in Italia / con i venti invocati approderete……
prima che in pena della vostra ingiuria / una fame terribile vi astringa
a mordere e a mangiare anche le mense
(Eneide canto III°)
cioè che quando per la fame arriveranno a cibarsi delle mense, lì è la terra sulla quale dovranno fondare la nuova città, infatti….
Come fu consumata ogni vivanda / la penuria del cibo anche li trasse
a dar di morso all’esili focacce, / a violar con le mascelle audaci
e con le mani gli orli ed i riquadri / delle croste fatali. <Oh, che mangiamo anche le mense?> Disse Julio e rise; / né altro disse. Ma quel primo accenno
annunciava il finir di ogni travaglio
(Eneide canto VII°)
Enea e il suo seguito approdano sulle coste dell’odierno Lazio dove consumano un frugale pasto, ma la mancanza di cibo li spinge a mangiare anche le mense; atto che la predizione delle Arpie identifica come la terra che la sorte (il fato) aveva loro designato.
Guido Pasini