Le mie “prime” FS

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Sono stato il quarto ferroviere, in famiglia, in linea discendente. Con me si è estinta, almeno per il momento, in famiglia, la dinastia ferroviaria. I due nonni Sante e Augusto, operai specializzati, il primo calderaio presso l’Officina Locomotive di Rimini, il secondo falegname nell’Officina di Ferrara. Il babbo Pietro segretario nel Deposito Locomotive di Rimini, Bologna e Firenze Romito.

Grazie all’entusiasmo inculcatomi dal babbo partecipai al concorso per Capostazione in prova bandito con D.M.10850 del 21.05.1969 e grazie alla sua preparazione assistita post-lavoro soprattutto relativamente alla matematica applicata e alla geometria (venivo dagli studi tecnici di ragioneria e la matematica e geometria classica erano state soppiantate già dagli ultimi anni di studi dalla matematica attuariale e finanziaria), ne uscii vincitore di concorso.

Superato con successo questo basilare scalino fui ammesso nell’Ottobre 1970 al corso formativo di 6 mesi presso la Scuola Professionale FS di Bologna Centrale. Io avevo già una lieve infarinatura di regolamenti e segnalamenti in uso ai treni e alle stazioni essendo un assiduo frequentatore dei corsi serali tenuti dal babbo nel piano-terra della nostra abitazione per preparazione di concorsi ferroviari – per ogni tipologia di mansione – che in quegli anni erano frequenti. Non sapevo nulla del Servizio Movimento e della modulistica relativa.

L’istruttore del Movimento, la materia base del C.S. (Capo Stazione), era un ferroviere distaccato presso la Scuola che pur avendo passato l’età dell’adolescenza, si atteggiava da giovanotto, in particolar modo nell’abbigliamento. Da tenere presente che quel concorso per Capistazione era il primo in cui erano state ammesse le donne e nel mio corso mi sembra di ricordare ce ne fossero sette. Ricordo in particolare un pantalone indossato dall’istruttore con disegni tipo scozzese, attillatissimo, come quelli che oggi potremmo vedere indossati da Signorini o personaggi simili. Faceva il carino con le colleghe ostentando con quell’abbigliamento il suo “pacco”. Peraltro, professionalmente era estremamente severo ed era padrone della sua materia.

L’istruttore del Servizio Commerciale comprendente biglietti, bagagli e spedizioni, era un altro bel personaggio; più giovane e brillante dell’altro, faceva il simpatico e lo spiritoso con le ragazze non lesinando battute e doppi sensi.

Terminato questo periodo da spensierato studente, mi venne assegnata la prima stazione dove terminare sul campo il percorso formativo e poi prestare servizio.  Avendo terminato il corso con un buon punteggio fui fra quelli che ebbero la facoltà di scegliere la stazione. La scelta non era poi così felice; c’erano solo gli impianti di Godo e Russi disponibili in Romagna, tanti sulla linea di Verona e alcuni su quella di Firenze. Unica stazione di una certa importanza era Reggio Emilia ma una collega era proprio di Reggio; un po’ per cavalleria ma soprattutto perché in ogni caso per me sarebbe stata una sede lontana dalla mia famiglia, non la scelsi. Ero già babbo di una bimba nata nel maggio dell’anno precedente (1970).

Raggiungere via ferrovia da Rimini le stazioni di Godo e Russi era scomodo e problematico soprattutto in alcuni orari per mancanza di coincidenze, perciò optai per la stazione di Vaiano, l’ultima stazione del Compartimento di Bologna sulla linea Bologna – Firenze, a pochi chilometri da Prato. Da Rimini, ultima stazione sud-est del Compartimento a Vaiano ultima stazione sud-ovest.

Con me a Vaiano furono destinati altri 3 C.S. di diversa provenienza: Sicilia, Marche e Lazio. Dal C.S.Titolare fummo sistemati, provvisoriamente, nel magazzino merci, mentre per i pasti ci recavamo in un vicino bar-ristorante. I primi giorni di servizio affiancati dai C.S. già in forza alla stessa stazione, furono emozionanti. L’impianto di Vaiano era costituito dai due binari di corsa, dal primo binario atto al ricevimento dei treni accelerati e all’uscita dal raccordo della Sottostazione Elettrica e del Servizio Lavori e da un lungo binario per le precedenze.

A Vaiano fermavano pochi accelerati, gli odierni locali, mentre sfrecciavano tantissimi treni. La linea, la più tecnologicamente avanzata per quell’epoca, era dotata per il distanziamento dei treni, di blocco automatico e di D.C.O. (Dirigente Centrale Operativo) ed era la principale direttrice nord – sud. Ricevuto il segnale acustico e luminoso dalla limitrofa stazione di Vernio, lato Bologna, o di Prato, lato Firenze, il dirigente, se nulla lo impediva, si limitava alla formazione dell’itinerario azionando apposite leve poste sul banco di manovra aprendo i segnali per il transito dei treni.

Ci si recava nell’apposita vedetta per presenziare il passaggio dei convogli che era pressoché continuo. Non c’era tempo di annoiarsi o pensare alla famiglia, l’impegno era costante. In aggiunta c’era anche l’impegno della biglietteria – si vendevano soprattutto biglietti a cartoncino già predisposti – aiutati dal manovale di turno che era il collaboratore fisso di ogni D.M. (Dirigente Movimento).

Ricordo il monito del Titolare riguardo la paletta di comando: attenti quando alzate la paletta; è un movimento semplice che comporta grandissima attenzione: fatelo solo quando avete espletato tutti i cinque controlli richiesti dal protocollo. Ogni Impianto Ferroviario ha i suoi lati più deboli e le sue particolarità che l’esperienza acquisita in prima persona facendo servizio le svela.

Anche a Vaiano, naturalmente, ma le raccomandazioni e la dritta date dal sig. Titolare furono quasi paterne soprattutto quelle di portare particolare attenzione riguardo il binario di raccordo con gli altri servizi (lavori ed elettrici). Dopo alcuni turni col C.S. tutore, ottenni il nulla osta per esercitare autonomamente il servizio, e così avvenne anche per gli altri colleghi.

Purtroppo la sistemazione che ci era stata offerta era da sfollati. Lato Prato, attraversando i binari e dopo gli scambi di stazione, era presente un casello disabitato. Chiesto al sig. Titolare se fosse stato possibile averne l’uso questi ci rispose che era un casello affidato al servizio lavori ed era difficile, se non impossibile, il prestito ad altro servizio, nel nostro caso al servizio movimento. Ma mai disperare; con il patrocinio del babbo che conosceva un Capo Tecnico Linea, suo ex compagno di studi che aveva giurisdizione su quel tratto di linea, riuscimmo ad ottenere l’uso del casello. Fatto eclatante per quell’epoca: piuttosto lasciato disabitato che assegnato ad un altro servizio. Lì ci sistemammo sufficientemente bene, rimediammo un fornello a gas, alcune reti, alcune sedie e un tavolo.

Il casello era vicinissimo ai binari e quando passavano i treni sussultava come se fosse in atto un terremoto ed anche il rumore era forte. In breve tempo mi abituai a questa situazione fino a che, sembra quasi paradossale, lo scoppiettare di un motorino circolante sulla pubblica via, mi turbava il sonno pomeridiano che precedeva il turno notturno.

Nel casello la coabitazione iniziò nel migliore dei modi: chi di noi quattro non era in servizio preparava il pranzo per tutti così che smontando dal proprio turno l’unica incombenza era scaldare il cibo e sedersi a tavola. Anche i mangiari erano vari perché ognuno ci metteva il suo estro regionale culinario. Ma come in tutte le coabitazioni l’idillio durò poco; non solo smontando dal servizio non c’era niente da mettere sotto i denti, anche il tegame e il piatto dovevano essere lavati prima di potersi mettere a tavola. Per non parlare delle pulizie essenziali: spazzare, dare lo straccio al pavimento, pulire il fornello, ecc. (io non voglio essere quello che pulisce per tutti … gli altri fanno i furbi … io non sono il più fesso … con questi ragionamenti nessuno faceva più niente).

Io mi arrangiavo correndo a casa ogni fine turno e rientravo con i rifornimenti. Nel casello non c’era il riscaldamento e l’unico modo per avere un po’ di calore era quello di mettere sul fornello a gas un pentolone pieno d’acqua che portato a bollore sviluppava tanto vapore e umidità. Non era il massimo ma nella stanza si mitigava il freddo.

Il sig. Titolare, si lamentava dell’arredo del suo ufficio: povero e in male arnese; forse anche sapendo che il babbo, data la sua posizione lavorativa avrebbe potuto fare qualcosa al riguardo. Io riferii tale desiderio al babbo che in poco tempo inviò a Vaiano un carro pieno di mobili per ufficio; una bellissima tavola, un altrettanto bell’armadio, due poltroncine, tali da cambiare completamente l’aspetto in ufficio degno di un Capo Reparto e inoltre una sedia tipo Savonarola per il D.M. Il tutto con il reso dei mobili dismessi, tipo l’odierna rottamazione: un tavolo per un tavolo, una sedia per una sedia, ecc. anche se mal ridotte o addirittura a pezzi.

Non era infrequente che lo scalo di Bologna San Donato non ricevesse perché intasato di treni e i D.C.O. disponessero di fermare i treni merci lungo le stazioni della linea. Avendo la stazione di Vaiano un lungo binario atto alle precedenze più volte mi capitò di ricoverare lunghi treni e di far ripartire i locomotori isolati. In un’occasione fu fermato un treno merci che aveva oltre ad altre merci anche quattro carri con trasporto di pecore e vi rimase per più giorni sotto il sole e senza foraggiamento. Le povere bestie si lamentavano emettendo strazianti belati, noi potemmo solo cercare di rinfrescare quei poveri animali con l’acqua passata attraverso le luci dello steccato in cui erano stipate. Da alcuni contadini rimediammo qualche balla di erba che riuscimmo a infilare fra le assi dello steccato. Dopo ripetute insistenze il Titolare riuscì a far ripartire l’intero convoglio. Come saranno arrivate a destino quelle disgraziate bestiole?

Vaiano ha la particolarità di trovarsi rispetto alle due stazioni limitrofe, lato Bologna la stazione di Vernio-Montepiano-Cantagallo e lato Firenze la stazione di Prato al culmine di una salita che vanta una pendenza da ambo i lati del 12 per mille per cui molti convogli pesanti arrancavano e soprattutto il nuovo locomotore E444 (tartaruga) slittava malgrado la sabbia che i macchinisti gettavano sui binari dall’apposita sabbiera, per cui i D.C.O. si raccomandavano di far trovare tutti i segnali a via libera. Lo stesso trattamento anche per un convoglio “raccomandato” trainato in doppia trazione da due locomotori 645: era il treno che trasportava le tramogge cariche di granaglie di Ferruzzi; non era un convoglio lungo, massimo 6 carri, ma molto pesante che circolava in piena notte.

C’era poi una coppia di treni viaggiatori che noi chiamavamo NON STOP, era il treno più seguito e raccomandato dell’intera rete ferroviaria italiana, classificato addirittura come Super rapido di sola 1a classe n° 556/557 Roma-Milano, tratta che veniva coperta in 5 ore e 30 minuti. Non effettuava fermate intermedie per servizio viaggiatori, fermava a Firenze Romito per il solo cambio del personale di macchina ed era formato da una coppia di automotrici Ale 601 e di una Le 601 rimorchiata.

Era il più veloce convoglio in circolazione sull’intera rete ferroviaria e il fiore all’occhiello delle FS e veniva utilizzato per i soliti privilegiati (leggi Onorevoli e simili). Quando passava, al suo presenziamento, si vedeva che viaggiava con molti posti liberi. Poiché non entrava a Bologna Centrale ma percorreva la linea di cintura già al passaggio da Vaiano, verso Bologna, venivano fermati tutti i treni che erano interessati alla linea di cintura bloccando in pratica tutti gli scali bolognesi.

A questo treno si lega un episodio capitatomi in servizio. C’era in programma un’interruzione richiesta dal Servizio lavori che doveva terminare in tempo utile per non turbare la circolazione del Super rapido. Purtroppo per il guasto a una macchina operatrice l’interruzione si prolungò oltre il dovuto e quel treno proveniente da Bologna stava già percorrendo la lunga galleria dell’Appennino.

Il D.C.O. era in fibrillazione, i due telefoni dell’ufficio del Titolare squillavano all’unisono. Anche io mi ero innervosito predisponendomi ad attuare la circolazione sul binario illegale. Dopo poco arrivò il treno. Ottenuto il benestare del D.C.O., consegnati gli appositi moduli ed espletati tutti i controlli, scambiati gli opportuni dispacci con il collega di Prato, licenziavo il treno. Anche i viaggiatori erano entrati in agitazione e, non potendo aprire i finestrini che erano bloccati, con il viso schiacciato contro il vetro, cercavano di capire la causa della fermata in quella remota stazioncina.

Il convoglio ripartì lentamente ma sugli scambi in uscita si arrestò. Mi prese un attimo di panico pensando di aver sbagliato qualcosa; avevo forse sbagliato qualche modulo e i macchinisti accorgendosene si erano fermati? Mentre correvo dai macchinisti mentalmente ripetevo la procedura. I macchinisti erano andati in leggera confusione, nella foga della ripartenza, per recuperare tempo, non avevano provveduto a isolare il controllo segnali in macchina, operazione che avrebbero dovuto fare essendo stati istradati sul binario illegale.

Il meccanismo automatico aveva fermato il treno. Altri minuti persi e altri telefoni impazziti e altri sguardi meravigliati e impauriti dai finestrini del treno. Ora erano i macchinisti che armeggiavano in cabina con un certo nervosismo. Al loro OK visto che non era intervenuta nessun’altra variazione, altra alzata di paletta e altra ripartenza. Rimasi sul binario fino a che il treno sparì alla mia vista. Al rientro in U.M. (Ufficio Movimento) mi aspettava la dettagliata relazione dell’accaduto da inviare agli Uffici Superiori.

Le notti di Vaiano erano caratterizzate dal rumore ritmato dei telai (quasi ogni famiglia aveva un telaio che tesseva; era l’attività artigiana prevalente) fra il passaggio di un treno e l’altro.  I turni di lavoro non avevano una cadenza costante, a volte si doveva ripetere il pomeriggio, altre volte la mattina ed anche la notte. Dopo la notte che chiudeva il turno rientravo a Rimini con l’accelerato che partiva alle 5,30; il collega montante anticipava il suo turno così come facevo anche io a mia volta ricambiando il favore.

L’accelerato fermava anche al centro della grande galleria dell’appennino dove esisteva una stazione chiamata Posto di Comunicazione Precedenze che serviva la località Cà di Landino che era raggiungibile salendo 1836 gradini di una lunga scalinata. A volte, per dare la precedenza a treni di categoria superiore, il treno veniva ricevuto in un binario deviato e la sosta si prolungava; aprendo il finestrino si respirava un’aria che non riesco a definire; un chè di stantìo, di vecchio e umido nello stesso tempo.

E pensare che là sotto facevano servizio altri ferrovieri, con turni più brevi ma in condizioni estreme senza vedere la luce del sole e respirando quell’aria che oso definire mefitica. In breve il sonno aveva la meglio e fino a Bologna non c’ero per nessuno.  A Bologna salivo sul treno coincidente per Rimini dove arrivavo verso le 9,30.

A proposito della scalinata di Cà di Landino. Un giorno, con un collega, decidemmo di vedere “de visu” questa ripida e lunga scalinata. Eravamo circa a metà della discesa quando sentimmo un grande risucchio, ci ancorammo alla ringhiera e la neve che era fuori aspirata come ci fosse in azione un aspirapolvere, ci bagnò: in galleria erano entrati da parti opposte due treni che dopo alcuni minuti sentimmo sferragliare sotto i nostri piedi. Fu una strana sensazione. Affiancato a quella scala una volta esisteva un carrello che faceva servizio di trasporto materiali e persone scendendo con una pendenza del 50%; nel 1947 a causa di un guasto si schiantò provocando tanti morti. Da quel giorno il carrello non fu più sostituito e chi voleva andare o venire dalla stazione sotterranea di Precedenze doveva servirsi di quella malagevole scalinata.

Tornando alla vita nel casello mi piace ricordare quanto avvenuto in un giorno di aprile del 1971.  Mia moglie non era convinta della mia sistemazione e volle di persona rendersi conto della mia condizione abitativa. Cercai di rinviare tale visita il più possibile fino a che un giorno, anche per non creare dissapori e approfittando dei lavori che erano in corso sulla linea, col treno chiamato “Freccia dei due mari”, Ancona-Livorno, mi venne a trovare.

Da programma lavori, il treno a Vaiano avrebbe sostato e sarebbe stato istradato sul binario di destra (binario illegale). Bruna che era in attesa al sesto mese del nostro secondo genito, come da accordi scese dal treno e attraversando i binari, l’accompagnai al casello. Al vedere come ero/eravamo sistemati si mise le mani nei capelli e presa la scopa cominciò a pulire: sotto ai letti (le reti) c’era un tappeto di lanugine polverosa, il fornello a gas aveva tutti i colori del mondo.

Non lesinò anche una più approfondita pulizia delle poche stoviglie di cui disponevamo. Era anche preoccupata del tremolìo provocato dal passaggio dei treni. Per il ritorno a Rimini, non essendoci treni utili, d’accordo col collega in servizio, fermammo un treno merci. Mi recai sotto il locomotore e chiesi ai macchinisti se potevano dare un passaggio a mia moglie fino a Prato dove avrebbe preso la “Freccia dei due mari” Livorno-Ancona e senza bisogno di ulteriori coincidenze sarebbe rientrata a Rimini.

Domanda che col senno di poi ho giudicato azzardata, da irresponsabile anche per le condizioni di Bruna; solo a salire e scendere la ripida scaletta era un rischio. Ottenuto il loro consenso, veramente troppo gentili, Bruna aiutata dal “maestro”- così nel gergo ferroviario era definito il macchinista, mentre l’aiuto macchinista era chiamato “allievo”- salì sul locomotore. Avvertito il collega di Prato che il treno merci si sarebbe fermato per far scendere mia moglie, rimasi in U.M. per seguire la fine del fatto. Tutto andò bene e Bruna arrivò a Rimini come da previsione.

A Vaiano non rimasi ancora per molto. La Direzione Compartimentale accolse la mia domanda di avvicinamento (avevo già due figli) e fui assegnato alla stazione di Savignano sul Rubicone. Essendo il C.S. di scorta, fui mandato in trasferta, inizialmente a Bellaria poi a Bologna San Donato al Posto Movimento E. Dal giugno 1973 fui in posto stabile come D.M. a Savignano dopo il tragico scontro avvenuto in linea fra Santarcangelo e Savignano fra un locomotore isolato e un carrello del servizio T.E. (Trazione Elettrica) che provocò la morte di 4 operai e il ferimento di altrettanti operai che all’ultimo minuto riuscirono a gettarsi nella scarpata scampando alla morte.

Fu un tragico errore umano di un collega che era sempre stato corretto e ligio al regolamento; nel nostro lavoro un errore può essere fatale, non si può rimediare, come potrebbe fare un impiegato gettando nel cestino della carta un conto sbagliato e ripeterlo correttamente. Il lavoro ferroviario è un lavoro di equipe, di solito l’errore non è mai di un solo operatore, è una somma di errori che purtroppo sono coincidenti e convergono tutti nello stesso punto.

Nel contesto l’errore primo fu del D.M., non prestando attenzione all’ultimo scambio che instradò il carrello sul binario sbagliato rispetto a quello stabilito con il dispaccio scambiato col D.M. di Santarcangelo, ma l’errore fu anche del Capo carrello che prese per buono e non controllò con attenzione il modulo M 32 (circolazione carrelli affidati alla protezione dei D.M.) nelle sue mani. Anche in questo caso fu la fretta, era fine turno, che rese gli operatori meno attenti e vigili.

Guido Pasini

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